mercoledì 1 aprile 2020

sei


6.
Quando sei nella vasca da bagno, sdraiato. E l’acqua ti arriva al tallone e copre appena le natiche e le scapole. E cominci a sentirti pesante come la ghisa. Cominci a sentire i pensieri che si infilano dappertutto che ti accerchiano piano piano e non sei più felice. Non sei più felice e lo senti che non lo sei più. Non capisci come potevi essere felice due minuti fa e adesso non esserlo più. E sei stanco... Ogni volta, ogni volta questo gioco terribile della corda, ogni volta sei felice e poi non lo sei più. E sei stanco e ti viene voglia di un da piangere. E l’acqua si alza senti che si alza e dagli occhi scivolano gocce e poi fiotti e poi pazzesco non ti regoli più. Hai solo voglia di piangere e stare in ammollo per sempre e non spostarti mai per sempre. Perché è così ingiusto essere felici e poi non esserlo più, a caso. È così ingiusto che non posso più rivedere i miei nonni per un altro anno almeno. È così ingiusto che loro debbano ripartire domani e io da domani fino almeno all’estate prossima non li possa più vedere. È così brutto che mi viene solo voglia di stare a piangere nella vasca. Che poi in Italia dovrebbe esserci questa legge che vieta di farsi il bagno nella vasca da quando uno c’è morto. Puoi avere una vasca da bagno sì, ma posso lavarmi? No non puoi perché uno c’è morto. E io non riesco a ridere di tutto questo, adesso non riesco più a riderne come avevo fatto come quando me lo raccontarono, perché quel giorno in quel momento ero felice, ma sono pronta a scommetterci che poco dopo non lo ero più. Ma perché alla fine ti senti sempre solo? Perché le palpebre ti cadono come coperte sopra gli occhi bagnati tipo “non piangete occhi siete al sicuro vi copro io, fuori è brutto il tempo vi copro io”. Con l’acqua che sale sale sale. Sale sulle labbra che non riescono a contenere le smorfie e accolgono fiotti incontenibili di male. Quelle smorfie che si fanno o quando si ride tantissimo e senza posa quelle risate che hanno origini antichissime, o come quando piangi da solo nella vasca da bagno. Quei momenti che alla fine non racconti mai a nessuno né tantomeno puoi raccontare perché sono troppo umani. E un da piangere pazzesco. Siamo così ridicoli ma così ridicoli nelle nostre vasche da bagno, sotto le docce mentre mangiamo amarezza, così ridicoli perché magari sette ore prima stavamo tenendo una conferenza su opere d’arte reggiane tutti sorridenti e pieni di raziocinio, pieni di critica d’autore, di gloria, d’amore per l’arte, la vita, l’amore. Che poi mi manca l’amore domani. Domani mi manca l’amore ma mi manca già adesso perché so che mi mancherà. Che agonia il pensiero. Che agonia non riuscire a controllarlo, che agonia non riuscire ad addomesticare i sentimenti e non essere felici e basta. I miei nonni mi raccontano sempre momenti di quando ero piccola e facevo i miei teatrini serali, quando imitavo personaggi, cantavo e ballavo e facevo sfilate con i vestiti di mio nonno e pretendevo che dopo mi dessero un soldino e loro mi davano il soldino dalla tasca invisibile e io lo mettevo poi nella mia tasca invisibile e davo il resto dalla mia tasca invisibile. Sapevo che era per gioco, ma era bello fare finta bene, fino alla fine. E godersi lo spettacolo fino alla fine, sospendendo il giudizio sulla realtà. I miei nonni mi raccontano come la mia presenza in casa rallegrasse tutti in momenti di guerra civile, con gli spari, la mancanza di cibo che ricordo ancora e io continuavo a chiedere di ascoltare me, vedere me, pensare allo spettacolo. Mi ricordano come l’arte può salvarti perché loro tutt’ora mi ringraziano tantissimo e a me sembra impossibile meritarmi tanto riconoscimento. Dicono che non chiedevo mai niente che anche quando cercavano di comprarmi una banana io dicevo che andava bene solo se c’erano soldi se no non ce n’era bisogno. Se vi fa ridere questa cosa della banana sappiate che avete vissuto un’infanzia quantomeno molto ricca perché avere una banana per merenda significava stare abbastanza bene per l’epoca e non mi stupisco che poi una volta arrivata in Italia, il supermercato mi sembrasse una città dei balocchi, una città cattivissima però, dove ti facevano vedere tutto, tutto ciò che io non avevo nemmeno avuto occasione di immaginare, ma poi dovevi pagare e il soldino invisibile non lo accettavano e cominciavi già ad avere un assaggio dell’amarezza. Il giro all’Ipercoop per la spesa era un Lunapark per me, avere l’illusione di poter prendere un gioco. Ma sapevo che non erano in grado i miei genitori e non chiedevo nemmeno, mi sembrava solo molto triste. Poi per capodanno mio papà aveva deciso di prendermi un bambolotto, biondo con la salopette rossa come le salopette che portavo sempre in Albania e la maglietta a righe rosse e bianche e aveva anche il lettino con le lenzuola con dei quadratini e dentro ogni quadratico un cuore. E’ stata una sorpresa, una di quelle che poi raramente ho rivissuto, una di quelle che non ti aspetti davvero ma davvero. Perché non pensavo fosse possibile. E stavo in bagno a giocarci per fargli fare il bagno nel lavandino, avevamo un monolocale. Mi sembrava così piccolo e così freddo con le porte sigillate come una cassaforte. In Albania la casa era spaziosa e le porte erano di legno, lì ero in una cassaforte di fronte al “Meridiana”, una scritta verde e gigante che mi ammazzava il cielo. La città sapeva tutta di detersivo e di chimico la mattina, di cemento e acciaio e la mensa era una caserma, mi ricordava le foto dei militari in Albania e quel tavolo lunghissimo di bambini mi ricordava i militari o i detenuti dei film, senza contare che la pasta lì era senza brodo, era dura e aveva solo un sapore di conserva rossa. I pomodori non sapevano del pomodoro che ricordavo io e cominciavo a domandarmi se finalmente fossi diventata grande e solo adesso riuscissi a sentire i sapori per quello che erano e forse mi ero sbagliata sui pomodori e in realtà sapevano di acqua acido e freddo. Doveva essere così. E mi inoltravo nel mio mondo nuovo pensando di star maturando nuove conoscenze riguardo gli odori e i sapori. Forse mi ricordavo male e i fiori in natura non sapevano di fiori.
Forse a Pogradec ci spruzzavano il profumo perché questo era il paese ricco e qui era tutto ricco e anche i fiori dovevano essere i più ricchi e profumati possibili. E poi a Natale, che detto francamente io manco sapevo cosa fosse il “n-a-t-a-l-e” né tantomeno “ g-e-s-ù” ma tanto non sapevo l’italiano ed ero a Reggio da soli due mesi e sarebbe stato inutile chiedere alla maestra cosa fossero questi tali signor Natale e Gesù che presupponevo fossero due importanti politici perché li adoravano, quindi forse avevano cambiato il modo di vivere dei cittadini e quindi avevano modificato le regole sociali e quindi dovevano essere politici. Ad ogni modo, mi arriva questa compagna di classe che mi intima di andare a controllare “le bustine” e mi avvicina a questa bacheca piena di buste che io credevo fossero affare dei grandi, dato che le buste a casa mia arrivavano o al nonno che era un politico, o a mia mamma quando il papà era in Italia e noi in Albania. E vedo che c’è il mio nome sopra una di queste bustine e vedo che le altre bustine sono vuote e la mia è piena e la mia compagna di classe questa tal Sara, che a dirla tutta mi stava proprio sul cazzo, mi prende le lettere dalla busta e me le da, io le apro... dei disegni firmati dai compagni vari e una scritta con la firma di Domenico. Domenico era un ragazzo con gli occhiali spessissimi e mi faceva ridere a guardarlo perché aveva gli occhi minuscoli così. Sta di fatto che Sara fa dei risolini e Domenico diventa rosso. Io non capisco “ti-i-a-emme-o” continuo a non capire e tutti a fare risolini e Domenico rosso a testa bassa. Volevo mettere fine a tutto. Ho buttato il bigliettino nel cestino e sono tornata a sedermi.
Dicono che le relazioni sentimentali o comunque i rapporti con l’altro sesso prendano i primi lineamenti dai primi approcci che si hanno avuti con l’altro sesso. Ogni tanto ci ripenso a Domenico. Da lì cominciarono a farmi regali, un altro ragazzo mi ricordo mi regalò questo libro a forma di pino con tutti gnomi palline e pacchetti regalo disegnati. Mi piaceva perché ogni scritta era accompagnata da immagini e potevo capirlo, lo misi nello zaino. Domenico non mi rivolgeva più la parola e io non capivo francamente una sega ma continuavo a reputarlo un sacco buffo e simpatico. Le ragazze mi toccavano i capelli, i vestiti, guardavano come disegnavo cosa disegnavo. Ma io ero tranquillissima, stavo sempre con tutti, non capivo una sega e non parlavo un cazzo di italiano ma tutti volevano entrare nelle mie grazie. Finché Sara decise che ero antipatica e mi bollò come menefreghista e snob. Lo capivo. Dallo sguardo lo capivo. Un po’ mi dispiaceva perché io avevo sempre reputato Sara antipatica, ma mi avevano insegnato a rispettare tutti, quindi non gliel’avevo mai fatto notare, ma forse lei se n’era accorta dal mio sguardo, come io mi ero accorta del suo e mi è dispiaciuto tanto perché poi ho visto che un giorno piangeva con Elena durante l’intervallo e feci un disegno per lei con il mio nome e lo misi nella sua bustina. Non sapevo perché fosse triste, ma se potevo fare qualcosa perché fosse un po’ meno triste volevo farlo. Infatti poi mi ha sorriso e disse qualcosa che dallo sguardo sembrava un grazie anche se a ripensarci ora, poteva anche essere un vaffanculo incipriato da sorriso e pacca sulla spalla. Ma tanto io non capivo niente ed ero ancora abbastanza positiva sull’umanità e lei mi aveva ringraziata e io ero felice. Poi c’erano questi vicini di casa, nonna Maria e nonno Amos, che mi cucinavano piccioni e mi sembrava così strano che in Italia si mangiassero i piccioni che poi alla fine sapevano di coniglio. Nonna Maria aveva questo grande quadro di due cani che mi piaceva molto e poi mi piacevano i suoi piccoli profumi. Bottiglie di vetro così piccole e così ben fatte, molto preziose e lei me le regalava come niente fosse. Per me erano così preziose. Ripensavo all’artigiano a Pogradec che lavorava il legno, quello che mi regalava sempre delle piccole travi di legno con le quali io costruivo piccoli divani e ogni tanto mi dava anche dei pezzi di stoffa che erano da buttare e io rivestivo i piccoli divani legandoci la stoffa e mettendoci dentro delle erbe per farli morbidi se no nessuno poteva starci comodo. Io non stavo comoda sui divani se non erano morbidi. Pensavo che chiunque avesse fatto quei mini profumi doveva avere anche lui un artigiano che faceva grandi bottiglie di profumi e quando gli avanzava un pezzo lo dava a quella persona che forse Nonna Maria conosceva e un giorno andando da Nonna Maria avrei potuto parlare con quella persona e dirgli che anch’io facevo piccole cose. Nonna Maria mi voleva bene, ma a me mancavano tanto i miei di nonni. Che ora mentre io stavo li seduta nella cucina di Nonna Maria, quella cucina che sapeva sempre di caffè e dava sempre rai 1, che mi faceva sentire un po' a casa, perché anche in Albania si sentiva odore di caffè e prendeva rai 1, ma mentre io ero lì, i miei nonni erano in America, in questo posto lontanissimo che devi prendere una macchina che vola per arrivarci.
In tutto questo avvertivo che insieme al pancione di mia mamma cresceva anche l’economia della casa e poi in Aprile è nato Erik e dovevamo trasferirci perché si stava un po’ stretti.

Finimmo in via Petrolini e dietro avevamo uno stadio da baseball enorme, ogni tanto finiva fuori dalla rete qualche palla e io me la prendevo perché nessuno le raccoglieva e stavano lì per giorni.
Il balcone invece dava sulla strada ma appena dopo la strada c’era questa bella distesa di prato finalmente. Quell’anno entravo in terza elementare. Ma tanto la cosa che mi prendeva di più era Erik. questo piccolo bambolotto che quando il 22 Aprile mi portarono a vederlo pensai fosse orribile, con la pelle screpolata e la testa da alieno ed era proprio strano che potesse diventare grande, un cosino così piccolo e bruttino, ma che occhi che aveva, che manine. Dopo neanche una settimana ha fatto la muta praticamente ed era d’un buffo, la pelle che sapeva di pesca. Mamma mia quanto divenne bello, ma di un bianco latte, con le guance rosse e gli occhi scuri e questo sorriso che mi apriva il cuore. E tornata da scuola correvo da Erik che cominciava a sorridere e agitarsi e si faceva raccontare storie. Che poi le mie storie riguardavano tutte cose che avevo fatto a scuola. Anche perché ormai l’italiano lo sapevo e capivo meglio quel che si diceva. Che ridere a pensare che in seconda elementare non ho mai fatto i compiti perché non sapevo cosa volesse dire “compiti” e non lo sapevano nemmeno i miei.

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