martedì 12 maggio 2020

quindici

15.
A me vedere i vecchi che mangiano fa schifo. Non so bene a cosa sia legato, ho questi ricordi di capelli bianchi e pelle rugosa e movimenti affaticati che ingoiano cibo a bocconi grandi e sbrodolanti che mi fanno schifo. In verità mi fa schifo vedere le persone mangiare senza cura in generale, ora che ci penso. Quando mio cugino abitava con noi e mangiavamo insieme mi schifava tantissimo non riuscivo a mangiare guardandolo, mischiava pasta con panna insalata e carne, tutto nello stesso piatto e si saturava di insalata quando aveva ancora la pasta in bocca ed era un immagine da vomitare. Mia mamma era più clemente e cercava di dirgli che era un modo molto strano di mangiare, ma lui non capiva che strano per mia madre ha sempre voluto dire modo di merda e lei, dopotutto non era suo figlio, non si permetteva di dirgli troppo altro. E’ stata una liberazione spaziale non averlo più a casa, mi è sempre stato sul cazzo, egoista falso approfittatore infimo con quel suo modo snob di giudicare tutti credendosi il re del mondo e mentre mangiava faceva schifo. Io gli ho sempre detto che non aveva una morosa, non perché lui non ne trovasse una adeguata, ma perché faceva vomitare a guardarlo mangiare e chiunque se ne sarebbe allontanato. La punta di senso di colpa che mi è venuta adesso è solo verso sua madre, mia zia morta qualche anno fa, quando tornavamo in Albania in estate lei mi faceva dare l’acqua ai suoi fiori e lei teneva molto ai fiori e io non l’ho mai potuta ringraziare per avermi offerto questo spazio nel suo spazio. Suo padre mi schifa tanto quanto lui, è sempre stato un provocatore e un viscido e un corrotto. Ad ogni modo adesso mi schifa un po’ mio padre quando mangia perché a forza di stare a casa è diventato molle e questa cosa mi schifa. E non sopporto vederlo mangiare senza ritegno il suo piatto di pasta senza che si sia nemmeno chiesto se aveva fame. Sento che si lascia vivere. Sento che è stanco e non lo sopporto. Non sopporto i deboli. E non sopporto questa situazione perché non riesco a digerirlo, non riesco a dirglielo. A mio cugino riuscivo. A mio padre non riesco a dirgli che schifo mangia meglio per favore o vaffanculo vi odio che schifo sei vecchio. Non riesco perché ho paura che la prenda male? Non penso. Lui ha sempre risposto alle mie frecciate, anzi sembrava proprio che la mia opzione l’avesse sempre trapassato come una battuta di spirito o se intelligente, come una frase semplicemente giusta. lo vorrei più reattivo.

E’ tornato oggi dalla radio metabolica e gli hanno detto che tutti i parametri erano a posto, ma allora perché non sei vivo? E’ stanco. Dorme sempre. Mi sembra stia diventando un peso e basta. E fa male pensare che a un certo punto i genitori diventano un peso perché in realtà sono i figli ad essere un peso e così deve essere, cosi voglio rimanere. Voglio essere la loro rottura di coglioni pesante per sempre. Non è vero. Non lo voglio. Voglio solo che torni a vivere. Voglio che torni a mangiare perché ha fame e solo se ha fame, che prenda di nuovo le direttive della sua nave e non faccia il passeggero. Mi fa paura vedere la sua paura. Lui non ha mai paura. Lui ha sempre saputo cosa fare. Ha affrontato situazioni enormi, a trentatré anni passare l’Adriatico su una barca piena di anime ad aspettare chissà quale Caronte sull’altra sponda senza nessuna sicurezza, ma solo sapendo di aver lasciato la moglie, una donna che conosci da tre anni e che vorresti continuare a conoscere per sempre e tua figlia e buttarsi in mare a petto di notte senza sapere nulla. Noi siamo un miracolo. Ha risalito l’Italia fino a Rimini con trasporti che non conosceva che non aveva mai visto, in Albania non passavano informazioni dal mondo esterno se non filtrate dalla televisione che teatralizza e glorifica i sogni e non sapevano niente, aveva solo il foglietto con il nome di un’amica di mia mamma che abitava a Rimini e lui andava a Rimini non sapendo niente di questo Rimini e ne è venuto a capo e ha vissuto con niente per sei mesi razionando il cibo e facendo lavori in nero finche è riuscito ad ottenere i documenti e far venire anche mia mamma. È riuscito in noi. È riuscito in situazioni inimmaginabili. Perché non se lo ricorda? Quanti trentenni come lui sono in giro a squattrinare soldi dei genitori come piccoli incapaci lombrichi senza una meta, quanti trentenni si sono persi in quel tragitto lasciando perdere le famiglie e andando al primo night club che trovavano, quanti hanno preferito la libertà delle prostitute e del vizio alla libertà della felicità, lui è stato l’uomo più coraggioso che io conosca. Non so cosa succede ora. Fuori fa molto caldo e a me gira la testa. Devo andare a litigare per le tasse universitarie.




sabato 18 aprile 2020

quattordici

14.
Ti piacerebbe che io fossi io e che tu fossi tu. Il tavolo sta fermo come un tavolo che sta fermo, c’è un tavolo e c’è che sta fermo e basta. E l’anima palpita in gola perché sta li e incombe come una tremenda pietra di paragone, sanguinante strumento di una rinnovata comunione. E precipiti in piena sindrome di afasia. Forse sono solo un eroe sadico che gode molto di più nelle parole che nell’azione. Siamo mai stati utili davvero? A chi è mai stata veramente utile la letteratura e ora come possiamo esserlo. A chi. Non fai niente, ma mi travolgi, mi guardi e mi investi, di tensione. C’è qualcosa di strano e di confuso che forse è meglio non disvelare a questo mondo, non risvegliare, teniamolo nel nostro. Teniamolo nel nostro. Questo mostro.

tredici

13.

THANATOS

Vorrei ucciderti.
Affondare le dita sulle tue spalle
serrarti al petto nudo
per sentire la carne sulla carne
e strapparti via ogni cosa ogni intreccio
di gambe una rincorsa alla materia, nascondere il mio volto tra i capelli e spingerti sotto,
spingerti con tutta la tensione muscolare possibile
e spingerti e tenerti in pugno
e bloccarti i polsi in un attimo di asfissia
e vedere i miei occhi
e senz'aria nei tuoi occhi godere
senza tempo in un istante di oblio.

dodici

12.

CASO DI CRONACA NERA

La senti?
L'arsura ribelle
Ribolle randagio
Un orso nella radura
Assetato di sangria
In una Spagna senza valori
Avvalorata (affocata) dal fuoco(caldo)di agosto Una preda inciampa
La mano le radici, inciampa
La carne corrosa (commossa), inciampa
Lui la afferra (serra al petto)
E tu rimani?






undici

11.
Il mondo non mi merita. Sono sempre più profondamente coinvolta in situazioni che non meritano la mia capacità di giudizio. È troppo. E voi siete troppo poco. Perdete tempo a rincorrere persone che non vi danno niente. Sempre più convinti che siano loro a meritare le vostre attenzioni. Sadici. Rincorrere chi non vi ha dato niente per sentire del male, per sentire qualcosa. Non sapete amarvi. Non sapete volervi bene. E riconsegnare bene a chi ve ne dà. Come se il bene fosse tutto dovuto. E poi a idolatrare il bene a parole, quando a gesti vi compiacete di seguire miraggi. La verità è che non vi stimate. La mancanza di autostima vi porta a cercare chi pensate di meritare e pensando di valere zero cercate zero. E vi stupite di trovare zero. Oppure cercate meno uno perché solo meno uno può ammirare uno zero come voi. E lasciate gli altri, quelli che vi curano, a fare e basta. A fare e basta. Ingrati falsi e bugiardi. Mi fate schifo e mi schifa il vostro modo di cullarvi nelle idee di bellezza e bene, mentre nei fatti fate schifo. E piangete per le mancate attenzioni di chi non se lo merita perché godete nello star male. E ignorate chi vi ha curato le ferite mettendo da parte la propria vita per voi. E pretendete e basta. Invece di pensare a ripagare quel bene. E quindi produrne altro e cercare uno spiraglio di positività e luce. Almeno una scia in mezzo a questa merda fetida e madida che si spalma su ogni giornata anche senza le vostre sovrastrutture del cazzo. Almeno una ferita di luce in questa stanza buia. Ma è più facile stare male come voi. È più facile creasi dei piccoli dolori del cazzo. Fa male invece sapere che c'è un male che non andrà mai via perché è l’umanità, è la vita. La vita è ignoranza pura. Non sai neanche perché sei vivo. E questo fa male. Non fa male non essere cagati da una persona che pensavi ti potesse piacere. Quelle sono solo circostanze o gusti. Quindi sì. Voi siete deboli e decidete di stare male per questo. E io vi schifo e vi invidio perché vorrei fare altrettanto e invece le mie radici prendono nutrimento da mali perenni senza risoluzione. Tutti i giorni. Senza fine.

martedì 14 aprile 2020

dieci

10.
EFFETTO MAGNUS

Mi sono messa la solita
voglia di vivere a plissè
e una polo del cazzo bianca, 

come la mia vita senza macchie 
tutta pulita.

Polita e smussata da ogni frizione,
i calzini di spugna con i capelli lisci di una messa in piega scaduta 

ma chi ha voglia di lavarsi.
Nessun detergente
lava via la malinconia,


la noia e chi ha voglia di lavarsi via
questa agonia che tanto torna sempre.
E quindi cosa vale? Che vale

lavarsi la tristezza quando
tu sei su un treno e il mondo fuori è lento 

talmente lento che non riesci a coglierlo. 

Accogli solo quello che va veloce come te 
e fa un po' schifo.
Le cose veloci finiscono così presto
e fa un po' schifo, non ti rimane niente 

nemmeno un ricordo
e invece ricordi quello che andava piano. 

Fuori dalla tua portata
dalla tua finestra
gli alberi in fila la terra.

In fila e aveva senso
aveva un senso amaro
Ma lontano! 
E
mi sento lontano

Sono sempre lontano.
Ci sono dieci occhi e una racchetta.



nove

9.
Trovo una certa difficoltà a disciplinare la mia insoddisfazione. Ho sempre creduto che l’insoddisfazione nascesse da un’autostima eccessiva. Nel momento in cui accetti i tuoi stessi limiti, cominci ad accettare anche quelli degli altri. Fondamentalmente non puoi fare altrimenti. Se veramente hai accettato i tuoi limiti vuol dire che in qualche modo hai pure saputo giustificarli, razionalizzarli, da lì il passo è breve. Anche i limiti altrui diventano sormontabili. Io conosco qualche mio limite e ho imparato a giustificarli piuttosto bene, ora quello che non riesco a fare è il passo successivo. Riesco a giustificare gli altri solo se hanno il mio medesimo limite. Ma identico. Altrimenti non so bene come fare. Questa cosa, per esempio, che tutti gli uomini guardino i porno, non so, io non guardo i porno. Io stessa uso immagini maschili dalle più svariate per convogliare il mio piacere, quindi non è che non li capisca, ma i porno. Non so, la sento come una mancanza di fantasia. O forse sto solo cercando di sublimarmi. È un territorio totalmente inesplorato per me, ma è un totale tabù cercare di capire la dinamica. È una sfera talmente privata che anche solo per esaudire una curiosità la gente non riesce a spiegarmi come funzioni.
È un rito credo. I riti sono sempre qualcosa di sacro e inviolabile e un po’ è giusto che ciascuno si tenga segreto il proprio rito. Il rito è un ritorno e un riconoscimento, e un piacere del riconoscimento non può che produrre altro piacere. Quando ti trovi nel mezzo di un rito che non conosci ti senti perso, perché non solo per te non è ancora un rito e non lo riconosci, ma perché il rito non viene spiegato, il rito lo senti e basta. Sono salita su un autobus l’altro giorno per andare a Rivalta ai colloqui con gli insegnanti di mio fratello. Ho preso questo 6 Rivalta-Locanda e non prendevo un mezzo pubblico da qualche tempo. Adesso si possono fare i biglietti in loco e costano un euro e cinquanta. Il milieu mi sembrava lo stesso e mi sono sentita un po’ sollevata. Poi niente, sono arrivati questi due bambini indiani e hanno cominciato a picchiare le mani sulle mie gambe. La ragazza madre al telefono si è voltata giusto un attimo per dire loro qualcosa in sciamanico e rivoltarsi dall’altra parte per continuare la telefonata. Loro mi picchiavano e io non sapevo bene cosa fare, sono rimasta attonita, impassibile alla violenza, mi è sembrato fosse un rito di iniziazione un gesto ancestrale al quale non potevo esimermi una volta sull’autobus e mi sono sentita un po’ straniera di nuovo. Ho continuato a guardare i bambini che mi pizzicavano e non riuscivo ad avere reazioni di fronte a tanta ispirazione originaria. Ero nel loro territorio. Loro sapevano come comportarsi, tutti lo sapevano. Mi sono sentita una stupida, imborghesita nella mia maglietta con scritto “honolulu”. Loro avrebbero reagito, io invece li studiavo come se fossi fuori dal finestrino e invece ero dentro. Una signora di fianco scuoteva la testa indignata della madre al telefono e schifava i bambini, lei aveva un ruolo, lei sapeva come reagire, lei faceva parte del rito. Merda io no. Mi domando cosa farei se mi ricapitasse. Perché nemmeno una seconda volta basterebbe per fare diventare quel rito mio. Dovrei cominciare a prendere gli autobus e cercarmi un ruolo. Così ero solo un passeggero. Un passeggero provvisorio, senza sostanza senza carattere, un personaggio in cerca di un autore, di un ruolo. Non ero a disagio, solo non avevo senso. Non che nella mia quotidianità io abbia sempre un senso, ma comunque un ruolo in diverse situazioni me lo sono creata, uno straccio di ruolo su cui poter improvvisare. Lì eravamo in un Eden primordiale e mi ha ricordato il bambino kossovaro che mi aveva rubato il cuscino in Albania. Non me l’ha proprio rubato in realtà ma rimane il fatto che il suo possesso fosse illegittimo. Abbiamo ospitato una famiglia di kossovari in fuga della guerra per qualche mese e il mio cuscino era andato a lui e sentivo che poteva rubarmi i sogni e questo mi spaventava perché avrebbe scoperto il mio rito. Non ho ricordi di quel periodo se non lui. Lo spiavo, non ci ho mai parlato, ma lo spiavo, non ho mai rivendicato il mio cuscino, ma lo spiavo, dalla cucina, lo spiavo, mentre si metteva i calzini rammendati ai talloni, lo spiavo, quando si appoggiava sul muretto in corridoio, io andavo nella camera dei miei nonni per poterlo vedere senza essere vista, lo spiavo, la maglietta a righe verdi e viola era la sua preferita credo, lo spiavo e quando usciva di casa andavo alla porta, mi si fermava il respiro e lo perdevo di vista. Non ricordo nient'altro di quel periodo. Solo lui e il mio cuscino rubato e io passiva a questa violazione. Poi un giorno mi sono svegliata con il mio cuscino e il bambino non l’ho più visto. In seguito alla tv c’erano solo spari macerie e bambini senza calzini e pensavo che almeno lui i calzini li aveva. Mi sentivo triste perché io ne avevo tanti. Almeno cinque più due di lana, un paio azzurri e un paio rosa fatti da mia nonna. Lui era venuto in estate o primavera e non aveva i calzini di lana perché non ce n’era bisogno. Comunque era riuscito a farmi sentire in casa d’altri a casa mia e non glielo perdonerò mai. E non è più tornato. Un rito mancato...

lunedì 6 aprile 2020

otto

8.
Sono tremendo. Non ho sensi di colpa da tantissimo, sono infimo e offro sorrisi senza pensare al domani. Il domani l’ho licenziato, è un’abitudine che ormai non so perdere. Perdo continuamente la voce invece. Ma poi fumo, ma non è masochismo, mi curo abbastanza da poter fumare, ho comprato questo voxyl una scatola di caramelle all’erisimo che è questa pianta che scioglie i mali intorno alle corde vocali. Mi immagino questi fili trasparenti resistenti, tra una parete e l’altra del collo come se fossero un po’ arrugginiti e questa pianta che rilascia sbuffi di aria fresca e azzurra e ripulisce tutto. Così poi posso fumare. Mi sembra un pensiero un po’ felice. Mi pensi ancora? Ogni tanto mi pensi? Perché ci sono quelle sere dove vorrei prenderti e serrarti al petto. Tu rimani?
Domani rimani? Mi manchi domani. È una voglia che rimane appesa certe sere. Certe sere ti bacio più di altre. Musica. È come musica. È un abito che svela le vene del pensiero, sui polsi. Mi pulsi.
E senti l’anima palpitare, in gola. Ma tu non lo devi sapere non lo devi sapere.
Mi sta venendo questa voce da uomo insieme al mal di gola ed è propio una voce che parte da chissà quale profondità del mio corpo, mi sento al cinema, a osservare i cambiamenti della mia voce. Non mi sento mai in colpa da qualche mese. Chissà che è successo, ma io non ho sensi di colpa, li ho tutti imprigionati in una pista da ballo e lì incantati dalla musica ballano senza filarmi.
Io quindi, faccio le cose come mi sento, sul momento che poi tanto è difficile vivere il presente, invece il passato e il futuro non sono mai certi perché il passato te lo idealizzi nella razionalizzazione e il futuro te lo idealizzi nella speranza, il presente puoi solo viverlo nella rassegnazione.
Una rassegnazione pacifica oggi la mia. Che fortuna.
È un delirio questa malattia. Volevo scrivere vita ma poi ho scritto malattia, che curiosa questa cosa che scrivi cose che non volevi. Poi ogni tanto guardo le gambe eleganti dei miei sensi di colpa che ballano ancora e sono proprio belli lì, tutti insieme che se la ridono nella pista da ballo bivaccando alcuni, intrecciati altri. E vederli così in questa particolare loro intesa, mi sembra proprio uno spreco andare a rovinare questa bella festa e li lascio lì. Tanto prima o poi si stancheranno e verranno loro da me, io finché posso me li godo così, da lontano, dal divano, bevendo grappa e piangendo dentro. Sono proprio commoventi. Ci sono le tre grazie coi loro veli che tengono banco e sono proprio assuefatte ora, che stiano lì, che si bacino ora, finché non dovranno tornare al lavoro e strapparmi i fasci muscolari come giovani Erinni inesperte, solo istinto. Ora non mi vedono perché sono in penombra, sono in dormiveglia e in malattia. Ma sentiranno un giorno l’attrazione, si volteranno un giorno come lupi. Mi punteranno un giorno come cani. Ma intanto me ne vado. Perché io vivo bene anche senza di loro, si vive lo stesso, è questa la cosa che fa male. Che si vive lo stesso anche senza sensi di colpa. Sai, i sensi di colpa ti fanno sentire segretamente assolto, come se il senso di colpa stesso possa bastare. La cosa triste è che non gliene frega un cazzo a nessuno dei tuoi sensi di colpa. A me no. Io vivo lo stesso. Tu vivi lo stesso. E facciamo schifo lo stesso. Ma quindi, che senso ha? Se tanto vengono comunque perché sono sovrastrutture, che senso ha? Cercare queste attenzioni assurde da persone orribili, dalle gambe eleganti certo, ma terribili. Nella vita sto accumulando tantissimi zeri, forse un giorno arriverà un 1 e i miei zeri prenderanno valore. Intanto io colleziono zeri, sono tutti sui miei soprammobili di lusso. Rido.
Sei proprio tu. Non so che darei per te. Darei i fili del mio maglione per te, in un gomitolo, per risparmiare spazio, perché tu possa farne ciò che vuoi. Va tutto bene. E’ solo una vita. È solo un gioco complice. Lo senti ora il sapore dell’acqua? La senti ora l’acqua? Sei nato dall’acqua come me.

sabato 4 aprile 2020

sette

7.
Poi ci sono quelle giornate che sanno di niente, di questo niente tutto salato che ti prosciuga la lingua e hai solo voglia di dissetarti e ti lasciano solo quella voglia di sete. Non so se hai presente quella cosa che ti arriva sulle costole prima da destra poi da sinistra poi lo senti fortissimo in pancia ed è un amaro, un disgusto, di aria vuota. Come respirare fortissimo e in realtà non respirare niente e nella sete sentire quest’asmatica voglia di qualcosa. Raccogliere da terra briciole di ossigeno, guardare in alto, vedere l’aria e mangiare briciole di ossigeno sempre con queste spinte, queste raffiche da destra e poi da sinistra, sulle costole e poi fortissimo in mezzo allo stomaco, un’insoddisfazione. Tipo che tu la vedi l’aria, la percepisci, ti sta attorno, fa una danza ma non riesci a far altro che guardarla perché gli altri sensi sono assopiti e tu ti lamenti perché l’altro giorno sentivi benissimo, toccavi benissimo, annusavi benissimo ma oggi proprio non annusi niente. Vedi l’aria, la percepisci, perché ti ricordi com’era, percepirla e un po’ la percepisci e la sfiori nel pensiero ma non riesci a riempirtene e per sopravvivere puoi solo inghiottire briciole. Sai quando mangi e senza volere inghiottisci le briciole e un po’ soffochi e un po’ hai paura perché non pensavi di poter morire lì mentre per sbaglio inghiottisci una briciola, perché non l’avevi calcolato e poi niente tossisci e ti senti un po’ stupido per aver pensato di poter morire e non lo confessi perché ti senti un po’ bambino ad aver avuto paura perché solo ai bambini purtroppo è concesso aver paura. E sorridi “No va beh ragazzi scusate mi è andato di traverso la saliva” Scusate. la saliva. Scusate ho avuto paura di morire e non l’avevo mai pensato di poter morire così, senza neanche un gesto eroico. Ci sono persone che mi immagino sorridenti, quiete a camminare su un prato di cuori ancora pulsanti, a camminare nude e quiete coi piedi sui cuori e questo prato rosso, immenso con un orizzonte tutto quieto e questi cuori. Ci sono persone che mi immagino così.
Poi ci sono persone che ti stupiscono ed è molto bello. Oggi per esempio sul regionale Reggio Emilia-Bologna Centrale ero seduta di fronte a un barbone. Aveva la pelle color terra, calvo e vestito come si vestirebbe un barbone, con una busta di plastica bianca tra i piedi, dalla busta prendeva i biscotti, poi l’acqua poi la custodia degli occhiali da vista, riponeva gli occhiali dentro, poi sempre dalla busta prendeva il telefono e faceva una telefonata e poi ha cominciato a parlare in inglese, un inglese perfetto e mi sono sentita un po’ stupida ad aver pensato che fosse solo un barbone e poi mette giù la telefonata e compone un altro numero e attacca a parlare in giapponese e io che leggevo L’ombrello di San Pietro e non riuscivo più a leggere perché mi sembrava uno scherzo. Niente, poi lo sbircio un po’ ma lui non mi caga perché traffica col telefono. Poi eravamo a Bologna e mi dice “Mi scusi non vorrei disturbarla devo solo prendere un attimo la borsa su” poi prende la borsa, questo zaino tecnico nero lucido pulito, lo scuote un po’ vedo che ci spuntano dei fogli con le scritte in giapponese. E dire che a me sembrava un arabo.

mercoledì 1 aprile 2020

sei


6.
Quando sei nella vasca da bagno, sdraiato. E l’acqua ti arriva al tallone e copre appena le natiche e le scapole. E cominci a sentirti pesante come la ghisa. Cominci a sentire i pensieri che si infilano dappertutto che ti accerchiano piano piano e non sei più felice. Non sei più felice e lo senti che non lo sei più. Non capisci come potevi essere felice due minuti fa e adesso non esserlo più. E sei stanco... Ogni volta, ogni volta questo gioco terribile della corda, ogni volta sei felice e poi non lo sei più. E sei stanco e ti viene voglia di un da piangere. E l’acqua si alza senti che si alza e dagli occhi scivolano gocce e poi fiotti e poi pazzesco non ti regoli più. Hai solo voglia di piangere e stare in ammollo per sempre e non spostarti mai per sempre. Perché è così ingiusto essere felici e poi non esserlo più, a caso. È così ingiusto che non posso più rivedere i miei nonni per un altro anno almeno. È così ingiusto che loro debbano ripartire domani e io da domani fino almeno all’estate prossima non li possa più vedere. È così brutto che mi viene solo voglia di stare a piangere nella vasca. Che poi in Italia dovrebbe esserci questa legge che vieta di farsi il bagno nella vasca da quando uno c’è morto. Puoi avere una vasca da bagno sì, ma posso lavarmi? No non puoi perché uno c’è morto. E io non riesco a ridere di tutto questo, adesso non riesco più a riderne come avevo fatto come quando me lo raccontarono, perché quel giorno in quel momento ero felice, ma sono pronta a scommetterci che poco dopo non lo ero più. Ma perché alla fine ti senti sempre solo? Perché le palpebre ti cadono come coperte sopra gli occhi bagnati tipo “non piangete occhi siete al sicuro vi copro io, fuori è brutto il tempo vi copro io”. Con l’acqua che sale sale sale. Sale sulle labbra che non riescono a contenere le smorfie e accolgono fiotti incontenibili di male. Quelle smorfie che si fanno o quando si ride tantissimo e senza posa quelle risate che hanno origini antichissime, o come quando piangi da solo nella vasca da bagno. Quei momenti che alla fine non racconti mai a nessuno né tantomeno puoi raccontare perché sono troppo umani. E un da piangere pazzesco. Siamo così ridicoli ma così ridicoli nelle nostre vasche da bagno, sotto le docce mentre mangiamo amarezza, così ridicoli perché magari sette ore prima stavamo tenendo una conferenza su opere d’arte reggiane tutti sorridenti e pieni di raziocinio, pieni di critica d’autore, di gloria, d’amore per l’arte, la vita, l’amore. Che poi mi manca l’amore domani. Domani mi manca l’amore ma mi manca già adesso perché so che mi mancherà. Che agonia il pensiero. Che agonia non riuscire a controllarlo, che agonia non riuscire ad addomesticare i sentimenti e non essere felici e basta. I miei nonni mi raccontano sempre momenti di quando ero piccola e facevo i miei teatrini serali, quando imitavo personaggi, cantavo e ballavo e facevo sfilate con i vestiti di mio nonno e pretendevo che dopo mi dessero un soldino e loro mi davano il soldino dalla tasca invisibile e io lo mettevo poi nella mia tasca invisibile e davo il resto dalla mia tasca invisibile. Sapevo che era per gioco, ma era bello fare finta bene, fino alla fine. E godersi lo spettacolo fino alla fine, sospendendo il giudizio sulla realtà. I miei nonni mi raccontano come la mia presenza in casa rallegrasse tutti in momenti di guerra civile, con gli spari, la mancanza di cibo che ricordo ancora e io continuavo a chiedere di ascoltare me, vedere me, pensare allo spettacolo. Mi ricordano come l’arte può salvarti perché loro tutt’ora mi ringraziano tantissimo e a me sembra impossibile meritarmi tanto riconoscimento. Dicono che non chiedevo mai niente che anche quando cercavano di comprarmi una banana io dicevo che andava bene solo se c’erano soldi se no non ce n’era bisogno. Se vi fa ridere questa cosa della banana sappiate che avete vissuto un’infanzia quantomeno molto ricca perché avere una banana per merenda significava stare abbastanza bene per l’epoca e non mi stupisco che poi una volta arrivata in Italia, il supermercato mi sembrasse una città dei balocchi, una città cattivissima però, dove ti facevano vedere tutto, tutto ciò che io non avevo nemmeno avuto occasione di immaginare, ma poi dovevi pagare e il soldino invisibile non lo accettavano e cominciavi già ad avere un assaggio dell’amarezza. Il giro all’Ipercoop per la spesa era un Lunapark per me, avere l’illusione di poter prendere un gioco. Ma sapevo che non erano in grado i miei genitori e non chiedevo nemmeno, mi sembrava solo molto triste. Poi per capodanno mio papà aveva deciso di prendermi un bambolotto, biondo con la salopette rossa come le salopette che portavo sempre in Albania e la maglietta a righe rosse e bianche e aveva anche il lettino con le lenzuola con dei quadratini e dentro ogni quadratico un cuore. E’ stata una sorpresa, una di quelle che poi raramente ho rivissuto, una di quelle che non ti aspetti davvero ma davvero. Perché non pensavo fosse possibile. E stavo in bagno a giocarci per fargli fare il bagno nel lavandino, avevamo un monolocale. Mi sembrava così piccolo e così freddo con le porte sigillate come una cassaforte. In Albania la casa era spaziosa e le porte erano di legno, lì ero in una cassaforte di fronte al “Meridiana”, una scritta verde e gigante che mi ammazzava il cielo. La città sapeva tutta di detersivo e di chimico la mattina, di cemento e acciaio e la mensa era una caserma, mi ricordava le foto dei militari in Albania e quel tavolo lunghissimo di bambini mi ricordava i militari o i detenuti dei film, senza contare che la pasta lì era senza brodo, era dura e aveva solo un sapore di conserva rossa. I pomodori non sapevano del pomodoro che ricordavo io e cominciavo a domandarmi se finalmente fossi diventata grande e solo adesso riuscissi a sentire i sapori per quello che erano e forse mi ero sbagliata sui pomodori e in realtà sapevano di acqua acido e freddo. Doveva essere così. E mi inoltravo nel mio mondo nuovo pensando di star maturando nuove conoscenze riguardo gli odori e i sapori. Forse mi ricordavo male e i fiori in natura non sapevano di fiori.
Forse a Pogradec ci spruzzavano il profumo perché questo era il paese ricco e qui era tutto ricco e anche i fiori dovevano essere i più ricchi e profumati possibili. E poi a Natale, che detto francamente io manco sapevo cosa fosse il “n-a-t-a-l-e” né tantomeno “ g-e-s-ù” ma tanto non sapevo l’italiano ed ero a Reggio da soli due mesi e sarebbe stato inutile chiedere alla maestra cosa fossero questi tali signor Natale e Gesù che presupponevo fossero due importanti politici perché li adoravano, quindi forse avevano cambiato il modo di vivere dei cittadini e quindi avevano modificato le regole sociali e quindi dovevano essere politici. Ad ogni modo, mi arriva questa compagna di classe che mi intima di andare a controllare “le bustine” e mi avvicina a questa bacheca piena di buste che io credevo fossero affare dei grandi, dato che le buste a casa mia arrivavano o al nonno che era un politico, o a mia mamma quando il papà era in Italia e noi in Albania. E vedo che c’è il mio nome sopra una di queste bustine e vedo che le altre bustine sono vuote e la mia è piena e la mia compagna di classe questa tal Sara, che a dirla tutta mi stava proprio sul cazzo, mi prende le lettere dalla busta e me le da, io le apro... dei disegni firmati dai compagni vari e una scritta con la firma di Domenico. Domenico era un ragazzo con gli occhiali spessissimi e mi faceva ridere a guardarlo perché aveva gli occhi minuscoli così. Sta di fatto che Sara fa dei risolini e Domenico diventa rosso. Io non capisco “ti-i-a-emme-o” continuo a non capire e tutti a fare risolini e Domenico rosso a testa bassa. Volevo mettere fine a tutto. Ho buttato il bigliettino nel cestino e sono tornata a sedermi.
Dicono che le relazioni sentimentali o comunque i rapporti con l’altro sesso prendano i primi lineamenti dai primi approcci che si hanno avuti con l’altro sesso. Ogni tanto ci ripenso a Domenico. Da lì cominciarono a farmi regali, un altro ragazzo mi ricordo mi regalò questo libro a forma di pino con tutti gnomi palline e pacchetti regalo disegnati. Mi piaceva perché ogni scritta era accompagnata da immagini e potevo capirlo, lo misi nello zaino. Domenico non mi rivolgeva più la parola e io non capivo francamente una sega ma continuavo a reputarlo un sacco buffo e simpatico. Le ragazze mi toccavano i capelli, i vestiti, guardavano come disegnavo cosa disegnavo. Ma io ero tranquillissima, stavo sempre con tutti, non capivo una sega e non parlavo un cazzo di italiano ma tutti volevano entrare nelle mie grazie. Finché Sara decise che ero antipatica e mi bollò come menefreghista e snob. Lo capivo. Dallo sguardo lo capivo. Un po’ mi dispiaceva perché io avevo sempre reputato Sara antipatica, ma mi avevano insegnato a rispettare tutti, quindi non gliel’avevo mai fatto notare, ma forse lei se n’era accorta dal mio sguardo, come io mi ero accorta del suo e mi è dispiaciuto tanto perché poi ho visto che un giorno piangeva con Elena durante l’intervallo e feci un disegno per lei con il mio nome e lo misi nella sua bustina. Non sapevo perché fosse triste, ma se potevo fare qualcosa perché fosse un po’ meno triste volevo farlo. Infatti poi mi ha sorriso e disse qualcosa che dallo sguardo sembrava un grazie anche se a ripensarci ora, poteva anche essere un vaffanculo incipriato da sorriso e pacca sulla spalla. Ma tanto io non capivo niente ed ero ancora abbastanza positiva sull’umanità e lei mi aveva ringraziata e io ero felice. Poi c’erano questi vicini di casa, nonna Maria e nonno Amos, che mi cucinavano piccioni e mi sembrava così strano che in Italia si mangiassero i piccioni che poi alla fine sapevano di coniglio. Nonna Maria aveva questo grande quadro di due cani che mi piaceva molto e poi mi piacevano i suoi piccoli profumi. Bottiglie di vetro così piccole e così ben fatte, molto preziose e lei me le regalava come niente fosse. Per me erano così preziose. Ripensavo all’artigiano a Pogradec che lavorava il legno, quello che mi regalava sempre delle piccole travi di legno con le quali io costruivo piccoli divani e ogni tanto mi dava anche dei pezzi di stoffa che erano da buttare e io rivestivo i piccoli divani legandoci la stoffa e mettendoci dentro delle erbe per farli morbidi se no nessuno poteva starci comodo. Io non stavo comoda sui divani se non erano morbidi. Pensavo che chiunque avesse fatto quei mini profumi doveva avere anche lui un artigiano che faceva grandi bottiglie di profumi e quando gli avanzava un pezzo lo dava a quella persona che forse Nonna Maria conosceva e un giorno andando da Nonna Maria avrei potuto parlare con quella persona e dirgli che anch’io facevo piccole cose. Nonna Maria mi voleva bene, ma a me mancavano tanto i miei di nonni. Che ora mentre io stavo li seduta nella cucina di Nonna Maria, quella cucina che sapeva sempre di caffè e dava sempre rai 1, che mi faceva sentire un po' a casa, perché anche in Albania si sentiva odore di caffè e prendeva rai 1, ma mentre io ero lì, i miei nonni erano in America, in questo posto lontanissimo che devi prendere una macchina che vola per arrivarci.
In tutto questo avvertivo che insieme al pancione di mia mamma cresceva anche l’economia della casa e poi in Aprile è nato Erik e dovevamo trasferirci perché si stava un po’ stretti.

Finimmo in via Petrolini e dietro avevamo uno stadio da baseball enorme, ogni tanto finiva fuori dalla rete qualche palla e io me la prendevo perché nessuno le raccoglieva e stavano lì per giorni.
Il balcone invece dava sulla strada ma appena dopo la strada c’era questa bella distesa di prato finalmente. Quell’anno entravo in terza elementare. Ma tanto la cosa che mi prendeva di più era Erik. questo piccolo bambolotto che quando il 22 Aprile mi portarono a vederlo pensai fosse orribile, con la pelle screpolata e la testa da alieno ed era proprio strano che potesse diventare grande, un cosino così piccolo e bruttino, ma che occhi che aveva, che manine. Dopo neanche una settimana ha fatto la muta praticamente ed era d’un buffo, la pelle che sapeva di pesca. Mamma mia quanto divenne bello, ma di un bianco latte, con le guance rosse e gli occhi scuri e questo sorriso che mi apriva il cuore. E tornata da scuola correvo da Erik che cominciava a sorridere e agitarsi e si faceva raccontare storie. Che poi le mie storie riguardavano tutte cose che avevo fatto a scuola. Anche perché ormai l’italiano lo sapevo e capivo meglio quel che si diceva. Che ridere a pensare che in seconda elementare non ho mai fatto i compiti perché non sapevo cosa volesse dire “compiti” e non lo sapevano nemmeno i miei.

cinque


5.
Che poi cosa dovrebbe fare uno normale. Niente. Viversi e lasciarsi vivere. Per quanto cerchi di darti delle coordinate, degli scopi, la vita sarà sempre quella. Mangi caghi regolarmente ti lavi per avere un po’ di decenza sociale, socializzi per quieto vivere ridi un po’ se ti capita, se sei preso bene. E poi niente, sei preso male piangi e poi muori. Quante sovrastrutture che ci siamo creati, quanti falsi miti di benessere. Quanto grasso e opulenza di sovrastrutture che sopperiscano a uno stato mancato di origine. Siamo condannati ad essere orfani. Siamo un po’ tutti orfani, madri, padri, nonni, figli. E che vagabondaggio difficile quello sulla terra, tutto un prezzo. Non puoi nemmeno più girare per la terra per i cazzi tuoi che ti costa tutto, e documenti e biglietti e medici e farmaci e pezzi di terra su cui coltivare. Ma che triste. Nel mondo occidentale poi è tutto così triste e ridicolo. Anche l’amore diventa ridicolo tutto vestito di modi di dire e cose da fare. Neanche il sesso ha più lati archetipici di passione. Già a leggere passione chissà quali strabilianti scene da film vi siete immaginati, di corpi attorcigliati a regola d’arte. Non sapete nemmeno più godervi il sesso, imprigionati in fantasie preconfezionate come la vostra inutile mente. Perché davvero se ci pensate, merda siamo inutili quindi smettetela di darvi ragioni cretine per fare cose come andare a ballare e spendere spendere spendere. Io vado a ballare. Ballo tutte le volte che sento una bella canzone. Ballo in piazza, nella festa dell’unità, nei locali di merda e anche a casa da sola. Perché è così fastidioso per voi fare le cose che vi va di fare? Merda. Che noia che siete. Ma una palla al piede proprio, tutti lì attorcigliati alle vostre pare mentali del cazzo come se foste utili. Quando capisci che la vita non ha senso cominci a viverla per quello che senti. Nel rispetto della volontà altrui dato che in primis sarete riusciti a rispettare voi stessi anche solo per aver accettato di essere inutili. Quindi vi prego smettetela di darvi arie che ci piscerei sui vostri volti truccati di miseria e povertà morale. Io bevo rido e bevo vino perché siete irrimediabili e imbecilli. Siete un’umanità liquida, dove vi si mette prendete forma, ma non sapete sfruttare la vostra liquidità per i cambiamenti decisi da voi ma che cccazzzo siete? Ma quanto imbarazzo avete? Tutto un recinto di paletti di imbarazzo e credete che far vedere le tette in giro sia tutta una trasgressione “nessuno mi può giudicare io sì che faccio quel che mi pare” per me puoi anche morire guarda, ma anche per gli altri sette miliardi di persone, ti giuro. Come ci è indifferente la morte. Sei sensibile? O lo sei solo quando una cosa te la piantano in faccia e non puoi far altro che esserlo? La verità è che abbiamo una bella corazza di merda secca addosso e siamo abitudinari da far paura. Talmente tanto abitudinari che se siamo abituati a soffrire non possiamo farne a meno e rincorriamo situazioni svantaggiose a tutti i costi solo per risentire qualcosa che sappiamo già. È rassicurante la zona di confort. Anche se è una zona di merda. Quindi via a scegliere l’ennesimo uomo di merda da portarsi a letto. Via a farsi trattare da zerbino. Ma chi cazzo ti darà del valore se non te lo dai tu? Siamo inutili! Quindi se vuoi sentirti utile e indipendente comincia col concedere quelle cose a te stesso. Avevo letto tempo fa un libro bellissimo “Cercando rispetto” di un antropologo di cui mi sfugge il nome. Ecco leggete quello se questo vi ha indignati.

quattro


4.
Che poi tutti i miei ricordi di infanzia girano intorno a lui. Dicono che il primo amore non si scordi mai, dicono poi che anche se vi siete lasciati per motivi validi, prima o poi si torni sempre a quella storia e si sfolla la memoria e... La pioggia sul lago.
L’acqua che si mischia all’acqua, un tutt’uno. Come fai ad avere paura della pioggia quando ti scivola addosso e tu per quell’istante ti senti lui e anche se siete lontani finalmente siete vicini. Ricercarsi nei ricordi, ritrovarsi in un istante rivissuto. Mi ricordo quando passeggiavamo lungo la riva del lago, mi ricordo le gocce che si univano alla superficie e mi chiedevo sempre dove andassero a finire, se quelle gocce scendessero per le profondità o diventassero la superficie stessa. Avrei voluto osservarlo per molto più tempo, avrei voluto avere più tempo da passare seduta li, ma sono stata lì solo sette anni. I miei primi sette anni in quella città dimenticata. Con le strade fatte di terriccio, come mi rotolavo tra terra erba e sabbia... Come erano belle le piccole gambe vestite di quella terra. Come sono stupidamente pulita ora, così falsamente profumata di odori artificiali. A che serve diventare più alti se tanto non riuscirai a toccare le stelle, da piccolo credi che sia colpa della tua altezza, ma poi cresci e finché non ti dicono che stai crescendo c’è ancora speranza, ma poi diventi maturo e dei portatori di verità mascherati da adulti ti dicono che ormai sei maturo e questo sarà il tuo corpo. Fine. Ma com’era bello poter credere nella possibilità di un dubbio, nella ricerca delle forme tra le nuvole. Avevo quattro anni quando scendevo dal quarto piano della palazzina per incontrare gli amici del quartiere. Una palazzina stile sistema comunista, senza convenevoli e molto cemento. Ero figlia unica e soffrivo la mancanza di compagnia, ero la prima ad arrivare e l’ultima ad andarmene. Mia mamma mi chiamava zingara perché ero sempre fuori casa. Abitudine che mi sono portata anche in Italia del resto. Comunque quel pomeriggio ero andata a bussare a tutte le porte dei miei amici ma loro erano ancora lì a fare il loro pisolino, che poi che palle dormire il pomeriggio. Li aspettavo da sola seduta sul marciapiede. Credo che quelle attese abbiano sviluppato in me un’attitudine alla malinconia. Mi sono sdraiata indietro con i capelli tra la terra ma che strano non ci avevo nemmeno pensato, volevo solo appoggiarmi. Che strano che adesso se vuoi appoggiarti devi pulire la panchina e poi no perché la maglietta nuova e poi è bianca e poi magari si macchia. È stata la prima volta che sono venuta a contatto con il cielo da quel che ricordo. O almeno è il primo ricordo che ho del cielo. Papà era in Italia da qualche mese probabilmente perché mi aveva lasciata che avevo tre anni e ho questa sensazione che fosse stato non molto dopo, comunque l’inverno era passato e quindi dovevo avere quattro anni perché ricordo che avevo il completino azzurro con l’elefante quello che preferivo. Pensavo che era proprio triste che tutti avessero un fratello o una sorella e io non avevo neanche mio papà. Poi ho pensato che forse la nuvola che stavo guardando io la stava guardando anche lui, ma era impossibile perché mi avevano detto che lui era in Italia e figurarsi io mi immaginavo l’Italia su un altro pianeta rispetto al mio pianeta Pogradec. Poi ho notato che le nuvole si muovevano... Che tutto il cielo si muoveva... Una di quelle cose che ti fa talmente tanto emozionare che stai lacrimando e un po' te ne vergogni perché non capisci perché. La sera, come da tradizione, quando andavano via le luci e si accendevano le candele mio nonno mi raccontava delle storie. Non vedevo l’ora che andasse via la luce, saltellavo portavo la candela al nonno e si cominciava con una nuova storia. Quella sera ho mangiato in silenzio aspettando, mi ricordo tutto il chiacchiericcio di mia mamma, mia zia, mio zio e i miei nonni e io che non facevo che pensare che dovevo chiedere al nonno una storia sul cielo che si muoveva. Salti di gioia quando la città si spegneva e via con una storia. Il nonno si sedeva sempre sul divano e io rivolta a lui sul manico. “Nonno ma io oggi ho visto il cielo muoversi, si muove il cielo?” Così mi raccontò che in realtà era la terra a muoversi e le nuvole erano spostate dal vento probabilmente perché erano leggere come i miei capelli e quindi quando si muovevano i miei capelli si muovevano anche le nuvole. Quella sera la storia mi rapì completamente, ero stregata, si parlava di un pianeta cioè una palla molto grande dove, per una forza molto potente, tutti gli abitanti non scivolavano e potevano abitare anche in basso, anche perché il nonno mi disse che la palla si muoveva quindi ogni tanto il basso diventava l’alto e l’alto il basso quindi le parti si invertivano. Sempre. Solo adesso mi rendo conto che le storie di mio nonno erano sempre storie reali. Come quando mi raccontò di un essere umano che aveva scoperto che i suoi parenti erano delle scimmie “Ma scimmie pelose e con la coda?” Scimmie pelose con la coda. Avevo pianto dal ridere, che poi quest’uomo nella storia di mio nonno, era parecchio superbo e arrogante con i più poveri e credeva di essere il migliore di tutti perché poteva permettersi vestiti nuovi e cravatte quindi quando aveva scoperto che discendeva da una famiglia di scimmie c’era rimasto proprio male e ha cercato di inventarsi una famiglia più valida e gloriosa, si era inventato questo padre che faceva cose magiche e che con i suoi poteri era riuscito a conquistare una terra che poi era stata promessa ai figli, insomma tutte storie di eredità e ricompense, quelle mi annoiavano quindi poi gli ho chiesto se l’avessero mai smascherato, mi disse di no, che tutt’oggi va in giro dicendo che lui non deriva dalle scimmie, ma da uno con i superpoteri ma si capiva che era una balla, perché non sapeva nemmeno descriverlo questo padre perché diceva che era talmente forte che era solo luce. E invece derivava dalle scimmie mangiabanane e io me la ridevo di gusto. Continuavo a mettermi la mano sulla fronte e a ridere così tanto, mi ricordo che anche la nonna si era messa a ridere dicendo a mio nonno che era proprio stupido. E io credevo intendesse che era stupido l’uomo con la cravatta e invece se la rideva anche lei perché mio nonno mi raccontava storie vere. Mio nonno era comunista. Ma il sistema comunista era caduto e quelli erano anni molto delicati perché chi era stato comunista non era benvisto dalla società. Mio nonno lavorava in prefettura, a diretto contatto col partito, ma con l’ascesa al potere del partito democratico e in periodo strascicato di guerra civile lui era bistrattato e non poteva lavorare da nessuna parte.

tre


3.
Che poi, prendete una donna, prendete un uomo.



Quando sono arrivata in Italia conoscevo le parole ciao e aiuto. Diceva mia mamma che fossero le fondamentali. E infatti io, che all’epoca non mettevo in discussione le parole dell’autorità, le trovavo fondamentali. Saper salutare per cominciare e saper chiedere aiuto. Che sembra banale ragazzi, ma non lo è. In quanti perdono poi la capacità di chiedere aiuto, come fosse un’umiliazione essere umani. Disprezzando la loro natura.

due


2.
Di base sono normale. Ma ci sono quelle giornate dove gli altri ti danno proprio l’urticaria e ti si rizzano i peli delle braccia. Che poi io me li faccio i peli delle braccia, perché un giorno non sapevo cosa fare e mi sono fatta i peli delle braccia. Dicono che “se te li fai una volta devi farteli per sempre! Perché poi crescono neri ed è un casino”.
A me veramente non sono mai cresciuti diversi, sono sempre loro e non sono nemmeno tanti quindi li riconosco proprio, ma ormai me li faccio “e li devo fare per sempre”. Che poi per sempre, ma per sempre cosa! Ma per sempre chi? La nostra stessa vita non è per sempre. La tranquillità con cui si utilizzano certi termini a sproposito è una di quelle cose che mi farebbe rizzare i peli delle braccia se li avessi. Non c’è nessun sempre non c’è nessun mai. E smettetela di recintare i pensieri con etichette del cazzo. I pensieri sono un vento impalpabile e voi lo volete imbottigliare a tutti i costi, con regole, regole, regole. Teoremi di uno sciamano vecchio decrepito. Morto. Ho provato a scrivere “come si deve scrivere” ma sono così stanca. Così stanca amici. Il senso del dovere dell’oppressione. Non possono più esserci doveri perché non ci sono più diritti. Quindi non venite qui a volermi infinocchiare con le vostre parole perfettamente belle, perfettamente giuste, perfettamente ricercate, ben ordinate, pettinate, costose, preziose, capitaliste. Non ci possono più essere generi perché non ci sono più barriere né confini. È un saggio questo? Dove sono le note? Non ci sono note del cazzo. Se voglio dirti qualcosa te la dico qui. Non ti faccio fare avanti indietro per spiegarti con tre formule decretate da autorità dubbie da dove ho preso spunto per una parola.

È inutile. Inutile. Inutile dirvi che se una cosa vi arriva vi arriva, se non vi arriva andate a farvi una sega. Io non so cosa dirvi ragazzi, io un po’ vi voglio bene a tratti eh. Nelle vostre ridicole insicurezze, nella vostra voglia convulsa di essere sempre al top. Che slang abusato poi questo “top”. Top top top top. Vi siete mai resi conto che a forza di ripetere una parola quella dopo un po’ perde di senso? Perché è un codice comunicativo preordinato, precotto, preparato. Come te. Sei un codice comunicativo sbagliato che si è scordato le sue origini, che disprezza se stesso, la sua natura di essere umano, che mistifica i suoi sentimenti, che veste la sua anima di pesi, che decora la propria vita con minuti vuoti e inconsistenti. Per questo amico mio mi fai schifo. Perché non sai vivere, ed è il più grande torto che potevi fare a te stesso. Dimenticarti di te, accantonarti e disimparare a vivere. In virtù di quali poteri mi sto arrogando il diritto di giudicarti? Il potere dell’empatia credo. Vorrei solo prenderti per mano, farti sentire quanto possono essere calde le dita di uno scrittore, di una persona che non teme la penna. Uno scrittore corre sempre il rischio di rimanere nudo sul palcoscenico. Nonostante i costumi, il parrucco, il trucco, il pubblico capirà sempre che sotto c’è un attore. E non temere quei due spettatori svegli è già tanto, è già un atto di coraggio.


DISCORSO DI UNO CHE PENSAVA DI AVERE RAGIONE
Che poi in linea generale se esponi un pensiero generalmente credi di avere ragione quindi questo “uno” è poi un qualcuno qualsiasi. Sapere di avere ragione infatti è diverso. Quando sai di aver ragione hai una certa amarezza e ti è molto più difficile dar voce a quel pensiero perché un po’ ti fa male. Perché in qualche modo sai che andresti a punzecchiare la lumaca che per istinto si ritrarrebbe in casa perché le cose certe non sai mai come prenderle. Sono definitive. Sono come la morte. E quindi non sai come, ma le rifuggi.

uno


1.
Sono una persona che giudica perché giudicare mi fa sentire meglio e dopo aver vomitato pensieri malvagi, mi sento meglio. Odio così tanto, odio e provo un desiderio di uccidere a volte, che solo io mi posso capire e accettare. Si insomma, solo io potrei accettare di me i pensieri che sforno, un’altra persona, una persona normale mi starebbe alla larga. Ma io non posso starmi lontano, ecco fatto, svelato l’arcano: mi devo accettare. Fine. Non è un processo così immediato in realtà, l’accettarsi intendo. Prevede, sapete, un tacito accordo di autenticità totale con se stessi. Io sono autentico con te, nel bene e nel male e tu in cambio non puoi che accettarmi. Ma poi adoriamo così tanto fare gli psicanalisti, come se poveracci non fossero che persone normali. Si fanno anni di università e noi invece, belli come il sole ci insuffliamo in un ingordo bagno di deduzioni psicanalitiche sentendoci veramente, no ma dico, noi ci sentiamo per davvero degli sciamani quando dobbiamo psicanalizzare qualcuno. Le donne poi, chi meglio delle donne riesce a costruire castelli di giustificazioni granulose pur di dare un significato coerente ai pali degli uomini. “Non mi ha voluta perché ha paura di una relazione seria, ho saputo che, dopo la sua ex storica, non ha più voluto una storia, ma sai, si vedeva che io gli piacevo e sarei anche stata disposta a liberarlo da questa sua prigionia agognante, ma se uno poi non si vuol far aiutare che devi fare, t’attacchi al treno. Così abbiamo chiuso, era troppo difficile stargli dietro” - “Ah ok, ho capito, beh dai meglio soli che mal accompagnati, piuttosto con le lezioni come va?” - “Ah poi non ti ho detto, mi ha detto che per lui si poteva anche rimanere amici, insomma voglio dire, mi dici che non vuoi impegnarti e poi mi dici che non ci sono problemi se ci vediamo in giro, ma a chi la vuoi dare a bere che saresti il primo a rimpiangermi, perché è questo che succederà: mi rimpiangerà: oh si, un’altra come me non la trova, guarda: io, da lui, di certo: non ci torno.”
Detta la sentenza, chiuso il caso. E invece no. No perché doveva ancora convincersi che non era lei la colpa, come se in questi casi dovesse per forza esserci una parte di colpa, doveva scagionarsi dalla possibilità che lei potesse non andare a genio a qualcuno. Ma perché star poi qui a giudicare lei, quando è la società, il sistema che non prevede i difetti. Devi essere speciale e aver sfondato, altrimenti non vali niente.
Come poteva accettare di non valere niente? É un pensiero un poco triste persino per me. E come facevo a farle capire che sbagliava alla base, che non è vero che se uno non è accettato allora non vale niente e quindi vale quanto il resto dei sette miliardi e mezzo di persone sul pianeta e quindi non vale niente, che non è vero, perché se siamo i primi a non trovare appassionanti tutte le persone del mondo, allora sarebbe quantomeno democratico accettare il contrario, che se per una volta, due, venti, qualcuno non ti caga forse vuol dire che non siete fatti per stare insieme perché se una relazione, in quanto relazione, prevede l’interazione tra almeno due persone, bisogna porca miseria essere almeno in due io credo! Per cui se a uno non piaccio forse semplicemente si è accorto prima di me che la cosa “non s’ha da fare” (quanto è abusata questa frase? mainstream proprio). Che se ne accorga prima lui o te non è la stessa cosa? L’importante non è evitare di star male per una cosa evitabile? Si soffre già abbastanza senza motivo, ma ragazzi veramente vogliamo crearci pare di ‘sta minchia perché a un uomo non andiamo a genio? Ma se tutti gli uomini che bidoniamo ragionassero da psicanalisti come reagiremmo? Che poi, le donne son creature meravigliose, per abbandonarsi in selezioni anatomiche delle parole da usare in modo da non passare per le disperate con l’ascoltatore, per anni e anni si impratichiscono tra amiche, psicoanalizzandosi a due a due. Che mestiere sottovalutato, la psicoanalisi salverà il mondo diceva qualcuno, o era la bellezza, non ricordo, non importa, vi odio. Odio che siate così manchevoli, non sapete nemmeno mentire più, siete pure commedianti di basso livello, pagliacci di trucco e pezzenti senza autoironia. Mi schifa ogni tanto stare tra di voi. Perché sì ci sto tra di voi e dove potrei mai andare! Mi bevo i vostri fottutissimi sorrisi ogni giorno e quanto, quanto, quanto desidero non essere assertiva, per una volta almeno, quanto desidero che la civiltà non mi avesse investito ventitré anni fa con i suoi rituali artefatti e la sua musica di merda. Invece è dal 1992 che sono costretta a fare e dire quello che vogliono gli altri. Di' mamma. Di’ ciao. Di’ grazie. Di’ vaffanculo .
Mi sono avvelenata abbastanza con questi pensieri, vado a bere. Mi ubriaco. Ubriacatevi anche voi moralisti implacabili “di vino o di poesia, ma ubriacatevi”.

introduzione



“Tacere non è difficile. 
Si sa che l'uomo quando viene al mondo
 non ha nulla da riferire.
 Non è difficile, specie 
finché non si impara a parlare.” 
L'ombrello di san Pietro, K. Milkszàth





C'era questa storia che uno aveva scritto nel suo libro che aveva ucciso. Poi gli hanno chiesto se fosse vero che aveva ucciso o se fosse finzione letteraria. Era finzione letteraria aveva detto, ogni libro è finzione letteraria perché si discosta, non solo di un livello dalla parola ma anche di un altro dal pensiero. Così è rimasta finzione letteraria e lui è stato assolto. Non era più un assassino, anche se aveva confessato tutto.