martedì 14 aprile 2020

nove

9.
Trovo una certa difficoltà a disciplinare la mia insoddisfazione. Ho sempre creduto che l’insoddisfazione nascesse da un’autostima eccessiva. Nel momento in cui accetti i tuoi stessi limiti, cominci ad accettare anche quelli degli altri. Fondamentalmente non puoi fare altrimenti. Se veramente hai accettato i tuoi limiti vuol dire che in qualche modo hai pure saputo giustificarli, razionalizzarli, da lì il passo è breve. Anche i limiti altrui diventano sormontabili. Io conosco qualche mio limite e ho imparato a giustificarli piuttosto bene, ora quello che non riesco a fare è il passo successivo. Riesco a giustificare gli altri solo se hanno il mio medesimo limite. Ma identico. Altrimenti non so bene come fare. Questa cosa, per esempio, che tutti gli uomini guardino i porno, non so, io non guardo i porno. Io stessa uso immagini maschili dalle più svariate per convogliare il mio piacere, quindi non è che non li capisca, ma i porno. Non so, la sento come una mancanza di fantasia. O forse sto solo cercando di sublimarmi. È un territorio totalmente inesplorato per me, ma è un totale tabù cercare di capire la dinamica. È una sfera talmente privata che anche solo per esaudire una curiosità la gente non riesce a spiegarmi come funzioni.
È un rito credo. I riti sono sempre qualcosa di sacro e inviolabile e un po’ è giusto che ciascuno si tenga segreto il proprio rito. Il rito è un ritorno e un riconoscimento, e un piacere del riconoscimento non può che produrre altro piacere. Quando ti trovi nel mezzo di un rito che non conosci ti senti perso, perché non solo per te non è ancora un rito e non lo riconosci, ma perché il rito non viene spiegato, il rito lo senti e basta. Sono salita su un autobus l’altro giorno per andare a Rivalta ai colloqui con gli insegnanti di mio fratello. Ho preso questo 6 Rivalta-Locanda e non prendevo un mezzo pubblico da qualche tempo. Adesso si possono fare i biglietti in loco e costano un euro e cinquanta. Il milieu mi sembrava lo stesso e mi sono sentita un po’ sollevata. Poi niente, sono arrivati questi due bambini indiani e hanno cominciato a picchiare le mani sulle mie gambe. La ragazza madre al telefono si è voltata giusto un attimo per dire loro qualcosa in sciamanico e rivoltarsi dall’altra parte per continuare la telefonata. Loro mi picchiavano e io non sapevo bene cosa fare, sono rimasta attonita, impassibile alla violenza, mi è sembrato fosse un rito di iniziazione un gesto ancestrale al quale non potevo esimermi una volta sull’autobus e mi sono sentita un po’ straniera di nuovo. Ho continuato a guardare i bambini che mi pizzicavano e non riuscivo ad avere reazioni di fronte a tanta ispirazione originaria. Ero nel loro territorio. Loro sapevano come comportarsi, tutti lo sapevano. Mi sono sentita una stupida, imborghesita nella mia maglietta con scritto “honolulu”. Loro avrebbero reagito, io invece li studiavo come se fossi fuori dal finestrino e invece ero dentro. Una signora di fianco scuoteva la testa indignata della madre al telefono e schifava i bambini, lei aveva un ruolo, lei sapeva come reagire, lei faceva parte del rito. Merda io no. Mi domando cosa farei se mi ricapitasse. Perché nemmeno una seconda volta basterebbe per fare diventare quel rito mio. Dovrei cominciare a prendere gli autobus e cercarmi un ruolo. Così ero solo un passeggero. Un passeggero provvisorio, senza sostanza senza carattere, un personaggio in cerca di un autore, di un ruolo. Non ero a disagio, solo non avevo senso. Non che nella mia quotidianità io abbia sempre un senso, ma comunque un ruolo in diverse situazioni me lo sono creata, uno straccio di ruolo su cui poter improvvisare. Lì eravamo in un Eden primordiale e mi ha ricordato il bambino kossovaro che mi aveva rubato il cuscino in Albania. Non me l’ha proprio rubato in realtà ma rimane il fatto che il suo possesso fosse illegittimo. Abbiamo ospitato una famiglia di kossovari in fuga della guerra per qualche mese e il mio cuscino era andato a lui e sentivo che poteva rubarmi i sogni e questo mi spaventava perché avrebbe scoperto il mio rito. Non ho ricordi di quel periodo se non lui. Lo spiavo, non ci ho mai parlato, ma lo spiavo, non ho mai rivendicato il mio cuscino, ma lo spiavo, dalla cucina, lo spiavo, mentre si metteva i calzini rammendati ai talloni, lo spiavo, quando si appoggiava sul muretto in corridoio, io andavo nella camera dei miei nonni per poterlo vedere senza essere vista, lo spiavo, la maglietta a righe verdi e viola era la sua preferita credo, lo spiavo e quando usciva di casa andavo alla porta, mi si fermava il respiro e lo perdevo di vista. Non ricordo nient'altro di quel periodo. Solo lui e il mio cuscino rubato e io passiva a questa violazione. Poi un giorno mi sono svegliata con il mio cuscino e il bambino non l’ho più visto. In seguito alla tv c’erano solo spari macerie e bambini senza calzini e pensavo che almeno lui i calzini li aveva. Mi sentivo triste perché io ne avevo tanti. Almeno cinque più due di lana, un paio azzurri e un paio rosa fatti da mia nonna. Lui era venuto in estate o primavera e non aveva i calzini di lana perché non ce n’era bisogno. Comunque era riuscito a farmi sentire in casa d’altri a casa mia e non glielo perdonerò mai. E non è più tornato. Un rito mancato...

Nessun commento:

Posta un commento